Il 21 settembre 2018 si è rotta la bolla di sapone nella
quale vivevo ed è cominciata per me una caduta libera nella quale ho perso
appunti, date di appuntamenti, documenti e una vita spensierata.
La caduta non ha una velocità costante: ci sono momenti di
assoluta, terrificante follia durante i quali penso che lo schianto al suolo
sia imminente, altri in cui la velocità di discesa scema tanto da sembrare
quasi di fermarsi a mezz’aria.
Non c’è una costante neppure nell’alternarsi di queste
sensazioni e tutto questo è destabilizzante.
A questo, ovviamente, è seguita una sequela di piccoli, a
volte insignificanti e a volte tragici avvenimenti che a leggerli con le carte
di una zingara potrebbero voler dire molte cose, ma essenzialmente, così come
vuole la tradizione, la corsa verso una fine prematura ed ingloriosa: ho rotto
una collana, ho perso un ciondolo, ho scheggiato il vetro dello smartphone.
Mi hanno affidato una pianta, cosa inusuale per me che ho
un pollice nero, ma la pianta ha dimensioni tali che abbisognava di un grande spazio,
quindi ha vinto casa mia; che poi, vista la mia attitudine a prendermi cura del
verde, vinto è una parola grossa.
Con l’attenzione che posso dedicare alle cose durante la mia
caduta, la pianta è finita nel posto di casa mia con più spazio a disposizione:
il terrazzo. Ad onore del vero, la pianta non è stata abbandonata ma è stata
accudita con attenzione, tanto da vestirla con gli appositi teli per l’inverno,
il pluriball intorno al vaso, la terra è stata coperta con i giornali e non è
stata data acqua in quanto durante il periodo invernale le piante vanno “a
riposo” e non volevo certo rischiare che congelasse. Il vaso è stato sollevato
dal pavimento.
Penso che di più, cadendo a quella velocità, non potessi
fare.
Tempo dopo, in un barlume di lucidità (dev’essere quando ho
rallentato più a lungo), ho ritirato la pianta e l’ho messa in un angolo in
casa.
Ah!, dicevano tutti, è morta.
Non potevo credere che quella pianta così apparentemente
forte, che non aveva neppure perso le foglie, fosse morta.
Dopo tante insistenze, all’arrivo della bella stagione (già,
ma quando è stato? Forse alla fine di febbraio ho pensato: non ha più nevicato,
non nevicherà più), ho deciso di togliere le foglie ormai rinsecchite ma ancora
salde sui rami e spostare la pianta in un posto più caldo e luminoso.
Tutto inutile: in cucina campeggia quello che sembra lo
scheletro di un glorioso Ficus Benjamin.
Pensare che lo avevo spogliato e spostato piena di speranza:
“con l’arrivo della primavera le radici ancora vive si faranno sentire e
finalmente tireranno fuori tutto il loro vigore!”, questo mi dicevo mentre le
persone che lo vedevano scuotevano la testa desolatamente come davanti ad un
moribondo.
Ieri però, mentre consideravo come avrei potuto disfarmi del
cadavere, e guardandolo ancora con speranza e quasi rimproverandogli tutte le
cure dedicatigli e che erano andate a finire in un vortice di delusione e
vergogna, ho scoperto un piccolo germoglio sulla cima di uno degli spuntoni
nudi.
Allora, per festeggiare insieme a lei l’arrivo della
primavera, ho acceso ancora della musica ed ho ballato in cucina mentre il
risotto si dorava subito prima di cominciare a versarci il brodo per la cottura
(ah sì: ieri sera risotto con zucca ed uvetta sultanina).
Altri due piccoli germogli si sono mostrati questa mattina.
Non datevi per vinti, mai.